Quando seppi che il Piccolo Teatro Grassi chiudeva la stagione con uno spettacolo di ventiquattr’ore, percepii l’abbraccio corale che l’organizzazione apriva all’intera città di Milano, ma anche l’incofessata urgenza di ricordare a se stessa da dove proviene, per quanto riguarda l’esperienza teatrale e come suggestione per l’annata che verrà.
Acquisto il biglietto per l’Eleusi di Davide Enia senza nemmeno leggerne integralmente la descrizione: sabato 10 giugno, ore 21, sono sufficienti poche informazioni a convincermi. L’Eleusi è un dittico corale che si realizza in strutture diverse: si articola come performance teatrale al Grassi per poi divenire esperienza immersiva allo Studio Melato, attraverso la musica ed il canto. Un antico dolore e un passato di sangue permeano le pareti di questi luoghi; a me la libertà di scegliere da quale dei due iniziare. Con banale intuito mi reco in via Rovello, il borsalino sul capo e l’orologio sul polso destro; ventuno attori, succedendosi continuamente in gruppi, offrono la produzione performativa. Avrei capito soltanto più tardi l’imbarazzo generato dalla parola ‘produzione’ se utilizzata per descrivere un evento come Eleusi, ma in fila, mentre attendo di entrare, ancora nulla profetizza l’esperienza che di lì a poco avrei vissuto, se non il cielo rosso di un tramonto appena conclusosi.
Prendo posto, chiarore e penombra si alternano nevrotiche sulla platea, agitandola. Ma poi le 21 scoccano, le luci si abbassano e l’Eleusi ha inizio.
È il 1943, la brigata fascista di Ettore Muti tortura ed uccide civili e partigiani, donne e giovani; davanti a me un caos brutale svuota la stanza di ogni valore, le urla e i sospiri non sono di uomini ma di bestie. L’odio giunge senza cause e senso, nei giochi di potere tra i personaggi risuonano risate giocose ed inquietanti. Si esce immediatamente dagli steccati della rappresentazione in senso stretto, quell’universo è prettamente performativo: capisco subito che lo spettacolo non è interpretabile, è ciò che avvenne in quello spazio prima che diventasse un teatro, prima che Paolo Grassi e Giorgio Strehler lo trasformassero in luogo che pulsa e vive. L’intensità cresce, i carcerieri gridano ed alzano fieri il braccio destro o infilano le mani nelle braghe, eccitati dalle vittime che seviziano, denudano, violentano, umiliano. Pinze per strappare, corde per strangolare, martelli per schiacciare, acqua per affogare, siringhe per avvelenare. I minuti passano lenti ed atroci, mentre il potenziale promesso dall’illuminazione tecnica, si esprime progressivamente in inatteso protagonismo; perché l’inferno è disegnato dal gioco di luci di Manuel Frenda: gli aguzzini diventano mostruose creature d’ombra, mentre le anime violate piccoli riflessi che si accumulano sul fondo della scena, prima di unirsi anch’esse in una spaventosa colonna umana protesa, in preghiera, verso il cielo.
Accolgo con sollievo il conto alla rovescia di uno degli attori. Sono le 21.20 e lo spettacolo è terminato, le luci si spengono, eppure mi sembra ancora di scorgere le sagome d’ombra in quelle tenebre melmose, immobili a sopraffarci. Mi domando se davvero intendo proseguire verso il Teatro Studio Melato, d’altronde posso recarmici in qualunque momento perché trenta gruppi corali si avvicenderanno ininterrottamente nell’arco delle ventiquattro ore. Mi concedo qualche sorso d’acqua ed una pausa silenziosa, durante la quale ausculto i miei pensieri e la risacca del salgue che mi pulsa nelle vene. Non posso interrompere il dialogo tra i due luoghi, quanto accade nell’uno si completa con ciò che avviene nell’altro, anzi, vi è un terzo momento in cui l’Eleusi si compie: è il cammino dello spettatore da uno spazio all’altro, il sentiero per interrogarsi su ciò che ha vissuto e che vedrà. Sosto in quel corridoio, sospeso nel centro di Milano, finchè non incrocio i pellegrini del teatro che vagano da una sala all’altra. Sono quasi le 22 ed il Grassi proporrà le stesse scene, da me vissute, ad una nuova platea. Il crollo del 900 si abbatterà su di loro come ha fatto con me, capiranno che il trapasso antropologico alla quale assisteranno è lo stesso che viviamo oggi. “Ricordare non assolve, non redime”, è questa la certezza che assorbo con irritazione mentre riconosco più chiaro che mai l’onere della memoria, una responsabilità ammantata dal canto incessante che ascolterò a breve e che me ne svelerà il senso tragico. È dall’oscurità che nasce il male, oggi come allora.
M’incammino verso lo Studio Melato, scorgo bagliori lungo la strada.
Dalle pareti dell’ex Teatro Fossati trasuda un passato meno opprimente e la musica rasserena, il suono delle voci avvolge. La successione dei cori richiama misteri antichi ed i canti si intrecciano perfettamente a prescindere dalla postazione d’ascolto; perché in questa stanza gli spettatori si sparpagliano a terra, si sdraiano agli angoli, si siedono dove vogliono e si abbandonano alla risonanza emotiva ed eterea delle note. Come contraltare all’esibizione del Grassi, la situazione nello Studio è atemporale, le luci non si muovono, i cori costruiscono una circolarità accogliente e il canto del singolo si confonde in un’armonia più grande. Ma la voce fuori campo di Silvia Giambrone mi strappa brutalmente dall’incantesimo e mi ricorda del mondo in cui vivo e dell’umanità violenta di cui faccio parte. Ho la folle sensazione che mi sussurri all’orecchio, come un grillo parlante, una voce senza espressione che solo io posso udire. Eppure il suo ultimo sussurro mi seduce e mi commuove: “portami con te fuori dal tempo, nello spazio immenso dove si aprono campi di fiori infiniti”.
Chiudo il cuore ad ulteriori contaminazioni concludendo, con questa immagine, la mia Eleusi. Intanto i canti non si interrompono ed il Teatro Grassi si riempre ancora ed ancora, Milano vibra, il mondo va avanti.
Non ho assistito ad uno spettacolo, non ho partecipato ad un evento. Davide Enia mi ha coinvolto attivamente in un rito che ha bruciato per ventiquattro ore, collettivo ma sfacciatamente intimo. A sua detta per rito intendiamo reiterare un’azione cercando, ogni singola volta, di caricarla di un senso, laddove il senso continua a sfuggire; con la ciclicità si tenta di svuotare se stessi del proprio sé, affinché filtri la luce. La ripetizione delle azioni esorcizza l’attuale scomparsa del sacro dal moderno orizzonte degli eventi e propone l’unica soluzione contro il male: soltanto il rito può contenerlo, soltanto il sacro può sconfiggerlo. Ed il sacro è apparso nel Teatro Piccolo di Milano sotto forma di implacabile violenza, non diverso da quello che avverti durante un sacrificio, e lo stesso che rivela un germoglio quando fiorisce.
È quasi mezzanotte. Il cuore non freme più ed il pensiero ragiona sul dispositivo teatrale, sul lavoro dei performer, dei coristi, dei tecnici, sull’interazione dello staff con la comunità di Milano. Al Grassi, invece, si ripete per l’ennesima volta la performance e all’entrata si forma l’ennesima fila di persone.
Tra di esse, mi sembra di scorgere un ragazzo con un Borsalino scuro sul capo e un orologio sul polso destro.