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Una notte a Shanghai

Huānyíng nǐ. Benvenuti.

 

Dopo aver letto libri, visto film, ascoltato racconti, cercato di comprenderne almeno un minimo la cultura, la politica e l’economia, eccomi qui. Atterrato in Cina, aeroporto internazionale Pudong di Shanghai. Solo un paio d’ore prima, avevo lasciato Tōkyō in una caldissima giornata quasi estiva. Come previsto un taxi nero tirato a lucido si era fermato sulla Azabu dōri, verso la stazione di Mita e poi l’aeroporto di Narita.

Esci dall’aereo ed eccola: la coltre perenne di smog mista a nebbia che rende l’aria di Shanghai così diversa da quella di Tōkyō. Un altro mondo. Sarà lo shock inverso di lasciare la perfezione giapponese, ma l’impatto con la Cina è più forte di quanto immaginassi. Trova le differenze.

Lo staff dell’aeroporto grida, tocca, spinge. La polizia ti scruta per capire se può rilasciarti quel transit visa di 24 ore che ti consente di entrare nella Repubblica Popolare. Un timbro sul passaporto e via, di nuovo, ancora catapultato in quest’altro mondo: “Welcome to the People’s Republic of China”.

Attraverso il lungo corridoio che porta alla stazione del treno a levitazione magnetica che arriva in centro. Capolavoro d’ingegneria, progresso. Ma è sporco. Impolverato come non mai, come la stragrande maggioranza dei mezzi di trasporto cinesi. E come gliela togli la patina che si accumula in continuazione?  In 7 minuti e 20 secondi copre i 30.5 chilometri che separano l’aeroporto dalla stazione di Longyang Road, con un picco di 431 km/h. Un bel giocattolino. Esco dalla stazione maglev di Longyang ed eccola: la Cina vera, quella degli odori di carni non meglio precisate,dei motorini assemblati in modo precario che corrono suonando il clacson, delle mille luci al neon.

Luci come quelle che brillano sulla centralissima Nanjing Road(南京路), dove migliaia di giovani cinesi passeggiano e fanno shopping nei tanti negozi e centri commerciali di brand stranieri: un’infinità di persone, vigili che cercano di governare questo traffico umano, venditori ambulanti di ogni sorta e senza tetto proprio all’uscita dei grandi magazzini di lusso americani e giapponesi che ci sono in questo grande incrocio.

Shanghai ora è li con la sua vitalità ed il suo caos.

La mia guida in questa notte a Shanghai è l’ispettore capo Chen Cao, il poeta-detective della penna dello scrittore Qiu Xiaolong. Attraverso i suoi libri, infatti, sto provando a conoscere questa città simbolo della Cina che cambia. Eccome se cambia. Shanghai, letteralmente “sul mare”. Prima del XIX secolo, era una semplice città portuale sul delta del Fiume Azzurro (che i cinesi chiamano Cháng Jiāng, “fiume lungo”), ma in seguito alla Prima guerra dell’oppio ed al Trattato di Nanchino diventa cruciale per le potenze occidentali: Regno Unito, Francia e Stati Uniti sfruttano la sua posizione strategica e la rendono un ricco porto per il commercio internazionale.

Dopo un po’ inizio la mia avventura alla ricerca del cibo locale e finisco in un posto che non sembra pulitissimo ma decisamente non turistico: sono l’unico straniero, l’unico wàiguórén. Il mio scarsissimo cinese non mi consente di ordinare molto, quindi vado a caso sul menu. Risultato: noodle in una zuppa di carne non meglio identificata.

Una coppia seduta al tavolo di fianco mi nota ed incuriosita mi saluta: lei si fa chiamare Priscilla ed è appena arrivata con il suo fidanzato dall’antica città di Guǎngzhōu, nella regione meridionale del Guǎngdōng. Sono simpatici. Mi offrono alcuni dei loro xiǎolóngbāo, i famosi ravioli al vapore cotti in cestelli di bambù: due chiacchiere, due risate e si offrono di accompagnarmi per il resto della serata. Quando usciamo sono deluso dal fatto che le luci sono ormai spente, i negozi chiusi, le persone a casa o a godersi la serata in qualche locale della movida di Shanghai.

Un’occhiata al famoso Peace Hotel, lussuosissimo ritrovo degli appassionati di Jazz fra la Nanjing Road ed il Bund: il cuore della vecchia Concessione Internazionale di Shanghai. Il Bund (per i cinesi Wàitān, “spiaggia esterna”) e l’area circostante sono il simbolo della presenza coloniale dell’occidente in Cina. Nei suoi edifici neoclassici, lungo il fiume Huangpu, avevano sede le più importanti ed influenti banche ed aziende straniere.

Il vicino parco del Bund oggi è aperto a tutti, a differenza di quando, si dice, vi era affisso l’infame cartello “vietato l’ingresso ai cani ed ai cinesi”. Oggi quel periodo di umiliazione straniera sembra lontanissimo e pare che qui si voglia intenzionalmente mostrare il riscatto politico ed economico della Cina contemporanea: la bandiera rossa della Repubblica Popolare che sventola sugli iconici edifici della HSBC e della vecchia dogana del Bund; i grattacieli del quartiere finanziario di Lujiazui che svettano dall’altro lato del fiume Huangpu, con la famosa Oriental Pearl Tower e la Shanghai Tower (il secondo edificio più alto al mondo dopo il Burj Khalifa di Dubai).

Seduto sulla sponda del Bund dimentico quella Shanghai frenetica e cosmopolita che speravo di trovare e mi rilasso osservando le navi che silenziosamente passano sul Huangpu: alle mie spalle il passato, davanti a me il presente ed il futuro di un paese che sembra non fermarsi mai.

La mattina all’alba ho solo poche ore e decido di perdermi per le piccole strade intorno a Nanjing Road: basta allontanarsi pochi metri dalla ricca strada dello shopping per entrare in un dedalo di strade strette in cui puoi vedere la vera quotidianità delle persone. Il pescivendolo ammazza e pulisce il pesce su un paio di cassette di plastica, il fruttivendolo grida, le vecchie signore fanno la spesa. Dall’altro lato della strada, in piccoli negozi si preparano i ravioli per la colazione. Palazzi in stile occidentale, con finestre tradizionali cinesi in legno, panni stesi ad asciugare fra le unità esterne dei condizionatori ed insegne di plastica: poca forma, tutta sostanza, tutta vita reale.

Il passo è breve e sono di nuovo su Nanjing Road: architettura neoclassica di negozi di lusso alternata ad edifici fatiscenti o in costruzione, mostri di cemento qui e lì, insegne gigantesche ed al primo slargo ci sono loro: i vecchietti che fanno tàijíquán (太极拳).

Il Taijiquan è l’antica arte marziale cinese che con i suoi movimenti lenti fa bene all’anima ed alle articolazioni. Queste persone che lo praticano un po’ per tutta la città, nei parchi e nelle piazze, ti fanno capire che non potresti essere che qui, nonostante il fatto che l’enorme slargo che si chiama Piazza del Popolo mi ricordi moltoPiața Unirii a Bucarest per la sua architettura comunista. Nel vicino Parco del Popolo, tra fiori ed aiuole curatissime c’è chi legge il giornale o si concede una partita a xiàngqí, gli scacchi cinesi.

E come in una partita a scacchi, questo paese di quasi un miliardo e mezzo di persone continua la sua ascesa in un mondo che diventa ogni giorno più influenzato dalle sue scelte. Zàijiàn Shànghǎi.

Roberto Vela, maggio 2018 – © Mozzafiato

Foto di Roberto Vela – Riproduzione riservata

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