Abbatte ogni regola del comune sentire, del politically correct (e vedremo come!), emergendo nella sua natura piena di Grande Inquisitore martellato da dubbi insanabili, l’Umberto Orsini che da tre anni porta in giro per i palcoscenici italiani questo dramma scritto e diretto da Pietro Babina. Una pièce che sconcerta, ribalta i canoni del teatro tradizionale a favore di una messa in scena che privilegia la provocazione costruttiva, la riflessione sulla mancanza di etica che attanaglia il mondo di oggi e lo fa servendosi di mezzi modernissimi come il neon, la musica apocalittica, i droni! Io l’ho vista al Teatro Valli di Reggio Emilia.
Babina ha condiviso la drammaturgia con Leonardo Capuano e il grande signore del teatro Orsini, visto in formissima nonostante le vesti caduche e le fattezze scarnificate, anima e corpo, alle quali è chiamato nel suo ruolo di giudice implacabile.
Il capo degli inquisitori, per una volta inquisitor, da un personaggio minaccioso che potrebbe essere la sua anima, appesantita dai sensi di colpa per le sofferenze provocate al genere umano e quindi desiderosa finalmente di espiare e di catarsi, si mostra subito nella dimensione più vulnerabile che si possa immaginare: silente, atterrita dagli incubi che lo vengono a trovare di notte, e di giorno, colto in vorticoso deambulare attorno a un tavolo. Senza pace, senza requie. E solo.
Non esprime parola, Ivan Karamazov, il nostro protagonista tratto dal romanzo di Fëdor Dostoevskij, la cui vicenda è all’interno di un capitolo noto col nome di La leggenda del grande inquisitore, ma è al contrario un coacervo di palpiti, sospiri e movenze dolorose, così duramente trattenute e proprio per questo vistosamente dichiarate.
E’ uno sfogo incandescente, che Ivan fa al fratello Alioscia, nel cui nucleo centrale cogliamo la bieca attività di un uomo piegato al potere della politica e della religione, dalle quali non riesce a sollevarsi e affrancarsi. Come una sirena, alla quale il nostro è diventato sordo, ecco la parola FEDE campeggiare in alto a destra, proprio così, in maiuscolo, contrapposta alla LIBERTA’, solenne concetto a cui tende Ivan con un grido tanto forte quanto paralizzante e inascoltato. Orsini, immenso in scena, dichiara che aveva voglia di riprendere in mano questo testo, cercando però di allontanarsi dal cliché dell’interpretazione dei Karamazov più abusata, ma offrendone una prospettiva del tutto nuova. Per lui, per l’antagonista, ovvero l’oscuro cardinale che lo interroga, per il regista e soprattutto per il pubblico. I temi sono quelli trionfanti della tragedia dostoevskijana ovvero il delitto, la punizione, la perversione, la negazione della fede e la perdita della speranza di un uomo che non può trovare appagamento al desiderio di gestire la propria libertà in autonomia, senza che gli piombi addosso il controllo dello Stato, attraverso i suoi vari apparati corrispondenti alle forme in cui si esplica il potere.
No, non è possibile, davvero, per l’inquisitore, e non solo per lui, voler bene all’uomo. Sembra dirci questo, il personaggio di Umberto Orsini mentre batte il palcoscenico a larghi e pesantissimi passi: non si può non provare qualcosa d’altro che non sia disprezzo per la natura umana. Deludente e malferma per sua natura. In un affondo insopportabile della rappresentazione, l’abietto protagonista rovescia in faccia al suo gerarca ecclesiastico e, soprattutto, al pubblico, l’episodio della ricca famiglia moscovita che al riparo della propria casa maltrattava la piccola erede. In un crescendo di orrore nella descrizione degli abusi compiuti dalla distinta coppia borghese si compie la confessione – supplica dell’inquisitore, al mondo e a noi che lo ascoltiamo: ho troppo visto e giudicato e posso dirvi che l’abiezione umana non ha freni. Vi prego ponete fine ai miei tormenti.
Speculare e interessante rispetto alla prima parte in cui, del tutto inaspettato, il campo rimane silenzioso e non viene proferita parola da entrambi gli attori, la seconda parte, nella quale Orsini indossa gli auricolari della TEDX conference, per mettere in discorso i suoi pensieri tutt’altro che democratici e ispirati a buoni propositi. Un modo per dirci che, ammantati di falsa retorica, i dialoghi più abietti possono risultare esteticamente accettabili. Che la parola può mistificare tutto. Che non c’è rimedio al buio della nostra condizione, se non un rimedio artefatto e falsissimo.
La reazione del pubblico allo spettacolo rasenta lo sgomento, per poi liberarsi alla fine in un applauso che oltre alla bravura degli interpreti è indirizzato a se stessi, alla propria capacità di comprendere la tragedia umana di cui è impregnato il Grande Inquisitore.
Lara Ferrari, novembre 2014 – Mozzafiato Copyright