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Great Resignation: la fine come inizio.

IL LAVORO MOBILITA

Ricordate una lettera diversa?
Mah, non ho mai visto un operaio diventare Granduca (e neppure Barone) dopo tanti anni di fabbrica.
Mentre si vedono tutti i giorni moltitudini di persone affannarsi e dimenarsi con gran lena (beh, almeno la maggior parte) per quello che è stato loro detto essere la ragione di vita o che più realisticamente è la fonte di sostentamento.
A ben vedere è null’altro che la traduzione laica del paradigma religioso: bisogna soffrire e faticare per poi avere la ricompensa. Peccato che la vita eterna non esista, nemmeno dopo una vita di lavoro. E la ricompensa terrena, quando c’è, è spesso misera, limitata e tardiva.
A ben vedere dunque il lavoro, nella maggior parte dei casi, è un diverso ‘oppio dei popoli’.
Qualcuno provocatoriamente dice che se avessero vinto gli altri, Il lavoro rende liberi sarebbe stato scritto sui cancelli di tutte le fabbriche. Si può provocatoriamente osservare che quelli che hanno vinto lo hanno comunque de facto predicato e fin istituzionalizzato.
Se la presunta libertà fosse quella che deriva dal denaro, allora bisognerebbe averlo indipendentemente dal lavoro, per opera dell’ingegno, per eredità o per rendita.
Se la presunta nobiltà fosse quella che deriva dalla gratificazione professionale/attitudinale, allora si potrebbe più efficacemente ottenere la stessa a seguito di studio o impegno formativo. Dunque se si ama il lavoro dovendolo fare (e non perché si usa quello degli altri) è per povertà, economica e/o culturale che sia.
Discussione sterile: il lavoro ci sarà sempre.
E non necessariamente perché qualcuno lo desideri, ma perché ci sarà sempre chi ne ha bisogno per (soprav)vivere. Allora ci vogliono società protette dagli avari, dagli stacanovisti, dagli ingordi, dai giocatori al ribasso dei compensi ecc.; anche perché mai come oggi la condizione di working poor è la norma di chi non abbia posizioni o relazioni di privilegio.
Bisogna fare, e quindi avere, quanto è compatibile con le esigenze dell’essere, che implica il giusto tempo per l’indugio e per l’ozio, per lo svago e l’apprendimento, per la socialità e il divertimento. E ciò non può venire dalla quantità, bensì dalla qualità del lavoro, che evidentemente deriva anche da una congrua e consistente ricompensa dello stesso.
Discussione feconda: il lavoro sta per finire.
E non grazie alle (o per colpa delle) macchine, ma perché molti di quelli che non ne hanno stretto bisogno se ne stanno allontanando.
Resignation è la parola del momento, che spaventa gli Uffici del Personale, anche se ribattezzati Gestione Risorse Umane, nell’illusione che cambiando le parole cambi la sostanza.
Mai come oggi ci sono tante persone che lasciano tutto per fare nulla.
Anzi, per fare tutto; tutto quello che ci si è resi conto che non si riesce a fare lavorando: ciò che piace fare quando lo si vuole fare. O in subordine per trovare un lavoro che lasci più tempo e spazio alla vita. 
Mai come oggi ci sono imprese che non trovano lavoratori, benché la disoccupazione e la povertà siano ben più diffuse del benessere.
In conclusione e parafrasando….
      FARE MENO,FARE MEGLIO,FARE TUTTI
                                      ed essere più felici

Il Conte, giugno 2023 – © Mozzafiato

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