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Il racconto dell’Ancella di Margaret Atwood

Devo ammettere che l’incontro con questo libro, è stato del tutto casuale;  ne avevo acquistato un altro, ma mentre ero in fila alla cassa, i miei occhi vagando annoiati si sono soffermati su questa copertina rossa e come una calamita  ne sono stata attirata. Ora non posso che ringraziare i miei occhi vagabondi e il mio sesto senso.

Il racconto dell’Ancella di Margaret Atwood venne pubblicato in lingua  originale per la prima volta nel 1985 in Canada, poi in Italia da Mondadori nel 1988; nel 2004, e nel 2017 con una nuova edizione, è stato riproposto dalla casa editrice Ponte alle Grazie.

Ora, iniziamo con lo sfatare alcuni miti che questo romanzo si porta dietro: sì, denuncia la società perbenista occidentale e il ruolo subalterno a cui spesso e volentieri le donne sono relegate ma il libro non  può ridursi solo a questo. È un libro stratificato, dietro ogni parola, dietro ogni sua immagine, è presente un affresco e una riflessione attenta della società odierna. Odierna poiché sebbene il libro sia stato scritto 33 anni fa, distanza neanche troppo considerevole, il mondo di quel periodo non ci appare così distante ma nella sua essenza, e questo libro ne è la riprova, sempre uguale a se stesso;  nella sua forma distopica espone inoltre  problematiche e critiche di una società ambientata in un futuro lontano, ma che inizia ad assomigliare spaventosamente alla nostra realtà.

Di cosa parla dunque questo libro? Per rimanere in linea con la scrittura dell’autrice, e cosciente che non riuscirei a renderle giustizia, vi propongo degli estratti dal libro stesso:

«Non posso evitare di scorgere, adesso, il piccolo tatuaggio che ho sulla caviglia. Quattro cifre e un occhio, un passaporto all’incontrario. Serve a garantire che non sarò mai in grado di scomparire in un altro paesaggio. Sono troppo importante, troppo rara. Sono una risorsa nazionale».

E diverse pagine oltre: «Noi esistiamo per scopi di procreazione […]. Noi siamo dei grembi con due gambe, nient’altro: sacri recipienti, calici ambulanti».

È la stessa struttura enigmatica del romanzo che mi impedisce di fornirvi ulteriori indicazioni, in quanto la scrittrice, dopo aver ideato una società futurista dominata da una dittatura maschilista, ci lascia accedere nel racconto attraverso la narratrice, l’Ancella, la quale ci fornisce solo  dettagli spezzati e incompleti, limitati a quello che lei sa e vede in modo irriflessivo. Un’idea più generale ce la possiamo fare alla fine, attraverso le “note storiche” che chiariscono le coordinate spazio-temporali, e il ruolo di alcuni personaggi affatto secondari.

Altro elemento fondamentale che contribuisce a mantenere il lettore con il fiato sospeso fino alla fine, è senza dubbio lo stile. Per ogni stato d’animo, per ogni ricordo della protagonista, viene evocata un’immagine potente, reale. Il ritmo narrativo segue la percezione del tempo: a volte opprimente, soffocante, altre volte spezzato, incalzante.

La società raccontata, narrata con una potenza descrittiva non comune, costituisce certamente spunto di riflessione. I cambiamenti che trasformano la vita della protagonista, sono attuati da un giorno all’altro. Una società dormiente, priva d’interesse, stanca, viene catapultata in un battito di ciglia in un nuovo Medioevo: tutto è gerarchizzato, diviso in caste, controllato.

Colpisce la forza dei ricordi, di un prima, che non esiste più: «Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà. Nulla muta istantaneamente.»

È un romanzo che se letto con la corretta predisposizione, riesce a colpire nel profondo e ad aprire gli occhi, e io credo che sia destinato a diventare un classico della letteratura moderna.

Vi lascio con un’ultima citazione, presente sulla nota di copertina, e che è stata  la ragione che quel giorno mi ha spinto a comprare questo di libro:

«Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso ci viene data la libertà da. Non sottovalutatelo».

Francesca Foddai, settembre 2019 – © Mozzafiato

 

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