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Viaggio nel paese del Sol Levante: prime impressioni di un napoletano a Tokyo.

Sono già passati due mesi da quando sono atterrato, in una calda sera di fine agosto, allo scintillante aeroporto Haneda di Tokyo.Tutto nuovissimo, pulitissimo, perfetto. Molte volte in Giappone avrò questa stessa sensazione.

Una vocina registrata ti chiede di fare attenzione alla fine del tappeto mobile, mentre di fianco senti  la musichetta della macchinina che puoi prendere per farti portare al terminal e pensi che sembra appena uscita da un cartone animato. Al recupero bagagli faccio la mia prima videochiamata rapida su Skype, giusto il tempo che arrivi la mia valigia impacchettata. In pochi minuti controllano passaporto e visto, e mi rilasciano la nuova carta d’identità giapponese, stampata in pochi minuti: “Welcome to Japan”.

Perché è tutto così pulito, perfetto, scintillante? Nella metro i sedili sono ricoperti di un morbido tessuto e a terra davvero ci puoi mangiare. Dando un’occhiata all’esterno del treno, le luci che brillano nella notte di Tokyo mi fanno sentire nello sprawl di William Gibson, o nella Los Angeles di Blade Runner.

Il sistema di trasporto pubblico di questa città di 15 milioni di abitanti (35 se si considera l’intera l’area metropolitana) è probabilmente il più avanzato del mondo: 13 linee metropolitane più altre 11 linee ferroviarie per un servizio efficiente e puntualeI treni si fermano per poche decine di minuti solo quando ogni tanto qualcuno decide di buttarsi sui binari. Stress? Orari di lavoro insopportabili o solo statistica? Difficile dirlo.

Nonostante la frequenza dei treni, molte linee sono incredibilmente affollate nelle ore di punta, tanto che esistono addirittura dei vagoni “Women only” in cui le donne possono viaggiare senza rischiare molestie o palpeggiamenti da parte degli altri passeggeri. Negli altri orari però i treni sono incredibilmente tranquilli: è vietato parlare ad alta voce ed al telefono per evitare di disturbare gli altri passeggeri che magari si sono addormentati sulla spalla di qualche sconosciuto.

Sulle scale mobili, talmente lucide che sembrano appena montate, chi si ferma tiene rigorosamente la sinistra, in modo da far passare sulla destra chi va più di fretta. In alcune stazioni addirittura cambiano il senso di funzionamento a seconda delle fasce orarie, per agevolare il movimento dei flussi di passeggeri.

Ma la cosa più incredibile sono le file: c’è una fila ordinata prima di salire per le scale mobili o prendere l’ascensore; una fila indiana per ognuna delle porte dei treni; una fila alla fermata dell’autobus, tanto che si aspetta pazientemente sotto la pioggia, anche se in teoria sotto la pensilina ci sarebbe spazio per tutti. Poco male, l’attesa è quasi sempre di meno di 5 minuti. Tutte le mattine in una di queste file indiane ci sono anche io, insieme a molti salarymen ed almeno una decina di bambini in uniforme che, rigorosamente da soli, si dirigono verso la loro scuola elementare.

Da soli, esatto, perché questo è uno dei paesi al mondo col minor tasso di criminalità, dove i bambini sono educati fin da piccoli a cavarsela da soli, ad essere indipendenti, anche nelle piccole cose come arrivare a scuola. Sugli autobus il biglietto non c’è: paghi ogni volta che sali (210 yen, circa 1,60€ per una corsa), in contanti o con una pratica tessera ricaricabile accettata dalle mille aziende pubbliche e private che gestiscono i mezzi di trasporto della città.

Puntualmente l’autista mi saluta cordialmente e mi ringrazia per aver scelto di viaggiare con la sua compagnia.

Nel tragitto di una ventina di minuti mi porta da casa al quartiere di Shibuya, sede della mia scuola di lingua giapponese e anche di uno degli incroci pedonali più affollati del pianeta, la vocina registrata molto gentile mi prega in continuazione di fare attenzione perché il bus è in movimento, perché sta per fermarsi, oppure semplicemente per dire una ad una tutte le fermate del tragitto.

Quando i passeggeri ordinatamente scendono dall’autobus, sono accolti dal personale dell’azienda che mette ordine nel trafficato terminal della stazione di Shibuya.

“Arigatou gozaimasu”. Grazie per aver viaggiato con noi. Lo ripetono ad ogni singolo passeggero per centinaia, forse migliaia di volte al giorno. Sono tutti vestiti con una tuta blu a strisce catarifrangenti: impassibili sotto la pioggia battente e sotto il sole, svolgono il loro lavoro con una dedizione incredibile, come tutti gli altri ingranaggi di questa società che a prima vista sembra così ordinata, efficiente ed impeccabile.

Bastano pochi secondi ed anche io mi ritrovo in questa massa indistinta di persone che si muovono ordinatamente ma rapidamente in tutte le direzioni: un altro ingranaggio, un’altra sagoma che si perde nella folla.

 

Roberto Vela, ottobre 2017 – © Mozzafiato

Foto di Roberto Vela – riproduzione riservata

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