Dino Buzzati Traverso nato a Belluno nel 1906, oggi è ricordato soprattutto per il suo celebre capolavoro del Novecento: “Il deserto Dei Tartari”.
Insieme ai romanzi del collega Alberto Moravia, consacrò il Realismo Magico in Italia, mettendo nero su bianco quella narrazione metafisica e surreale tipica di quel movimento tanto diffuso in America Latina, diventandone, così, il suo principale esponente nostrano.
Il romanzo, pubblicato nel 1940, nasce, come ci racconta lo stesso Buzzati, quasi come un «risultato istintivo» degli esordi nella sua lunga carriera all’interno del Corriere. Come tutti i principianti, anche il maestro del Novecento dovette iniziare con la tanto faticosa gavetta all’interno del giornale. Lunghi turni notturni, un lavoro pesante, monotono in cui doveva aspettare che arrivasse la notizia. Sorgeva quasi spontaneo, col passare degli anni, domandarsi se mai sarebbe arrivato il suo momento; quella riconoscenza, quel passo in più che giustificasse il tempo speso.
La sua immaginazione, cominciò così, a viaggiare per ingannare il tempo: fuggire da esso, ed è proprio su questo concetto che prende vita quel fantastico romanzo psicologico.
Essendo un appassionato di scrittori come Edgar A. Poe e Hoffman, non poteva non creare un racconto che al suo interno non contenesse elementi soprannaturali.
La narrazione è incentrata sulla vita del protagonista, il sottotenente Giovanni Drogo, il quale una volta divenuto Ufficiale viene mandato in servizio presso un distaccamento militare chiamato la “Fortezza Bastiani”, posta su una desolata e solitaria montagna remota al confine del mondo chiamata, per l’appunto, “il deserto dei Tartari”.
Il racconto parla, dunque, dello svolgersi della vita all’interno di questo posto sperduto dove il tutto gira intorno alla perenne attesa di veder arrivare il nemico: i Tartari.
Gli anni passano, il nemico non arriva e Drogo comincia a sviluppare una sorta di ossessione, un incessante desiderio di poter dimostrare la sua eroicità, di dare un senso a tutti quei anni trascorsi nella fortezza che ormai l’avevano completamente sradicato dal mondo comune. Nella scena finale, entra in gioco la tipica ironia buzzatiana: quando finalmente, il tanto atteso nemico arriva, Drogo è prossimo alla morte, condannato su un letto di ospedale da una malattia al fegato incurabile, impossibilitato, quindi, a realizzare quello che per lui era l’unico obbiettivo di vita, nell’attesa della sua personale, grande occasione ha una rivelazione. Capisce finalmente qual era il suo vero scopo, la sua missione più grande, ovvero quella di affrontare la morte da eroe, con dignità, con la consapevolezza di aver sconfitto il vero ed il più grande nemico di tutti: la paura.
Ma Buzzati non era solo questo, era anche altro: era il giornalista dal quale tutti si aspettavano sempre il massimo, perché in fondo solo lui aveva quella particolare magia di realizzare articoli di cronaca attraverso un linguaggio semplice, diretto, senza tanti abbellimenti o fronzoli, una concreta, dura, asciutta verità dei fatti ma con il tocco del poeta che rendevano i suoi scritti di tutta un’altra stoffa: Buzzati, dipingeva con le parole.
Non c’era da stupirsi se nelle sue mani, il settimanale Domenica del Corriere (1950/1963) arrivasse a sfiorare più volte il milione di copie vendute. Aveva idee lungimiranti, dettagliate e precise su come far funzionare al meglio un giornale, metodi studiati analizzando le persone, il lettore medio, fu il primo ad ideare un giornale così come lo vediamo adesso. Ma la penna di via Solferino, era ancora altro: eccelso pittore capace d’immortalare, attraverso le sue toccanti opere, l’anima delle cose. Una miscela di correnti stilistiche che fanno dei suoi dipinti, così come della sua scrittura, un’artista per eccellenza. Anticipava i tempi perché sapeva guardare oltre. Ci lascia nel 1972 nella sua Milano un 28 gennaio per via di un tumore al pancreas come suo padre. Ma Dino Buzzati non è morto, la sua arte continuerà ad ispirare e motivare migliaia di giovani che, attraverso lo studio delle sue idee, facendole proprie, lo manterranno in vita, abbattendo così una delle sue, forse, più grandi paure, molto simile a Drogo, il protagonista del suo romanzo di maggior successo :
«Mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi […] che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire.»