Questa affermazione di Paolo Rossi conclude una sua recente intervista.
Ma questa dichiarazione ci fa comprendere il vero DNA del calciatore: un’opportunista dell’area di rigore.
Luglio 1982, avevo da poco compiuto vent’anni, “20” come il numero della maglia di Paolo Rossi e come cantava Francesco Guccini : “A vent’anni è tutto ancora intero, perché a vent’anni è tutto chi lo sa”.
Io una cosa però la sapevo: quella di andare a casa di Carlo con gli amici della compagnia teatrale Hope Theatre a tifare la nostra nazionale. Risate, abbracci e soprattutto concentrati quando iniziava la partita. Tutti in piedi all’inno di Mameli e riti scaramantici quando inquadravano Enzo Bearzot, portava sfiga, ogni volta che lo inquadravano, dopo i gol subiti dal Perù e dal Camerun nel girone eliminatorio, gridavamo tutti insieme: “Tocca per terra, tocca, tocca”, facendo quasi tremare il pavimento.
E poi le corse fuori per strada ad ogni vittoria. La mia specialità era di salire sui bus o sui tram bardato con il tricolore e gridare :“E alloraaaa” . Ognuno aveva la sua. Carlo faceva finta di essere un turista americano, fermava le signore anziane che camminavano per strada e domandava a queste principesse con molte primavere, con accento tipicamente anglosassone, sgrammaticamente divertente : “Mi hanno diciuto che ci essere stata una partita di football importante, cosa vi è successo, Signora? Cosa Vi è successo?”
Io ce l’avevo a morte con Bearzot perché non aveva convocato tra i 22, Evaristo Beccalossi, giocatore di estro, fantasia e dribbling. Anche la maggior parte della stampa nazionale lo aveva criticato di questa scelta. Addirittura Il giorno della partenza dell’Italia per la Spagna, una ragazza lo insultò all’aeroporto per non aver convocato Beccalossi. Il c.t. le rispose con uno schiaffo. Chissà, oggi, cosa sarebbe successo ad un episodio simile.
La notte del 11 luglio l’ho trascorsa fino all’alba nei dintorni di Piazza Duomo a festeggiare e festeggiare, con un’adrenalina in corpo che non mi toglieva il fiato di gridare “E alloraaaa ”
Il mese successivo siamo partiti in quattro con una Fiat 127 verso la Grecia.
Quando arrivammo a Creta, dopo tanti chilometri e traghetti vari, partecipammo a una partita vera undici contro undici in un campeggio. Nazionalità ed età varie e confuse. L’importante era solo di tirare quattro calci a un pallone, ma con passione e serietà.
Io sono stato sempre mancino, pur se scrivo con la destra. Mancino istintivamente come il Becca.
Arriva un palla in area e il difensore la rinvia male e io lì pronto ad approfittare dell’occasione. Gooool. Un tipico gol di rapina.
E tutti i miei compagni di squadra a complimentarsi dicendo : “ Pablito Pablito Rossi” .
Ecco, in quel momento non ho avuto a fianco, come Paolo Rossi la Coppa del Mondo, ma la sensazione di felicità e orgoglio credo sia stata la stessa.
Paolo Rossi uomo garbato e gentile, il viso dell’italiano comune, un giocatore che ha regalato emozioni e gioie ad un’intera nazione.
Solo per questa profusione di felicità verso le persone, dovrebbe essere accolto in Paradiso.
Baldassarre Aufiero, dicembre 2020 – © Mozzafiato
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Nessuno resta indifferente, davanti all’Azzurro. Ricordo perfettamente mia madre, da sempre digiuna di calcio, arrampicarsi sulle tende del salotto con la bava alla bocca, per i gol di Paolo Rossi al Brasile. (Stepiazz)
Il giorno che temiamo come ultimo è soltanto il nostro compleanno per l’eternità.(Seneca)
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ANCHE I POLENTONI SONO SCARAMANTICI
Sono cresciuto unico interista in una famiglia di rossoneri inossidabili; capirete che quando giocava la Nazionale c’era nell’aria un certo imbarazzo latente: gli echi della staffetta Mazzola-Rivera non si son mai spenti.
Il pomeriggio dell’11 luglio 1982 quell’imbarazzo era molto evidente: il primo tempo di Italia-Germania si era concluso sullo 0-0 ed avevamo persino sbagliato un rigore. Succede che mio padre che non conoscevo superstizioso, alludendo senza dirlo al fatto che l’interista poteva portare sfortuna, mi fa un po’ vergognandosi: “Perché non vai a vedere la partita da un’altra parte?”
A papà non si dice di no e così mi trovai in una via Solari ovviamente deserta e mi avvicinai ad un bar ovviamente strapieno con la speranza di essere accolto senza strani pregiudizi.
Stavo avvicinandomi alla porta del locale quando, attraverso il vetro, vidi non proprio nitidamente il guizzo del Pablito n. 20 che deviò nella porta teutonica la prima delle tre palle che decisero il risultato finale e sancirono il trionfo azzurro. Era uno dei tanti gol capolavoro che questo giocatore ‘magico’ ha regalato ai tifosi di tutto il mondo, ma quello sdoganò il mio ritorno a casa anche se ciò implicava la conferma del mio ruolo di ‘menagramo’. Avevo il dito sul bottone del citofono quando esplose un boato: era il gol di Tardelli , la cui corsa in realtà divenne l’icona di quella partita, ma la mia immagine indelebile è quel guizzo del numero 20, visto attraverso una vetrata e disturbato dal riflesso del sole.
Mio padre rispose al citofono, forse in preda ad una punta di rimorso e io gli feci: “ORA posso salire?”