Leggere l’autobiografia di una persona che conosco è operazione rischiosa che ho sempre cercato di evitare. In genere chi scrive di sé difficilmente sa resistere alla tentazione dell’autocelebrazione.
Insomma, forse sarà per il mestiere che faccio, ma già dal primo incontro con una persona mi sento legittimato a farmene un’idea esaustiva. Deducendo dall’aspetto fisico, dal modo di esprimersi e da una infinita’ di secondari dettagli, un identikit psicologico esaustivo. Spesso del tutto errato.
La conferma della mia inettitudine l’ho avuta leggendo questo testo di Ilaria d’Urbano, monologo redatto senza pause, tutto sott’acqua, senza prendere mai fiato.
Malgrado le tante attenzioni manifestate da Ilaria nei riguardi del mio lavoro, a conferma di una sua indubbia sensibilità, debbo confessare che nell’apprestarmi alla lettura, la diffidenza era predominante.
Mi attendevo l’ennesimo sfogo nei riguardi delle ingiustizie patite corredato da un elenco di colpe (sempre altrui) che giustificassero la propria frustrazione.
Mi attendevo l’ennesimo testo di denuncia e al contrario mi sono trovato a leggere, in uno stato di commozione crescente, un libro colmo di riconoscenza. E pensare che Ilaria, ma lo scoprirete di pagina in pagina, non solo non ha avuto una vita facile ma, semmai, spesso le difficoltà è andata lei stessa a cercarle.
In uno slancio affettivo nei riguardi di tutto ciò che la circonda, sublime.
Ineffabile.