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IL CIBO E LA CITTA’

SABATO 16 SETTEMBRE I978: ore 8,30 del mattino!!!

No, non è la data dello sgancio di ordigni nucleari su qualche inerme enclave in qualche parte del Mondo, ne quella della firma di un Trattato Internazionale: è il giorno del mio trasferimento definitivo a Torino.

Appena scesa dal treno e venni investita dall’aria piuttosto fredda e carica degli odori della stazione: fuliggine, bagni già mal lavati alla partenza, umidità densa. Fuori da Porta Nuova il cielo era grigio e la città frenetica.

Torino mi accolse con le sue nebbie, il brulicare degli operai ai cancelli delle fabbriche, con il suo melting pot fatto di mille dialetti italiani, con tutte le sue contraddizioni;trovai una città vivace, operosa, commerciale, popolosa e popolare, un po’ ritrosa ma disponibile.

Non mi feci intimorire dalla sua vastità, dalle grandi distanze, dalla riservatezza dei suoi abitanti e dal clima diverso: fu amore quasi immediato, che tuttora mi appassiona.

Iniziai presto a percorrerla in tram, mi sedevo nelle ultime file di seggiolini e la osservavo, imparavo a riconoscere i quartieri, le vie e osservavo la gente.

Ma la zona in cui più amavo gironzolare era il Centro Storico, ricco di splendidi palazzi e carico di storia. Così durante le mie infinite passeggiate, mi fermavo in Piazza Castello, bighellonavo per Piazza San Carlo e poi a prendere il gelato “da Pepino”, in Piazza Carignano.

Mi piaceva quel largo spazio trattenuto dalla Storia, elegante, imperioso e mi piaceva curiosare tra le vetrine de “Il Cambio”,il ristorante storico più blasonato della città, che sorge proprio accanto al Teatro e di fronte a Palazzo Carignano. In una delle sue luminose ed eleganti sale settecentesche, più volte riadattate nel tempo, in quel tavolo d’angolo, pranzava Camillo Benso Conte di Cavour. Lo faceva durante le pause dei suoi lavori governativi a Palazzo, e si racconta che si affacciasse dal balcone grande e facesse segno al Maître di preparare. Sembra che amasse molto la tipica “finanziera” e pasteggiasse rigorosamente a “Barbera”.

Continuavo a camminare lungo i portici di Via Po, in direzione Piazza Vittorio Veneto e li mi fermavo a turno, in uno degli storici bar che la popolano, teatro insieme a molti altri del Centro, delle interminabili e clandestine riunioni Carbonare, che portarono ai ben noti sconvolgimenti irredentisti del Risorgimento.

Arrivata in Piazza, mi fermavo spesso al Caffè Elena, altro luogo spettatore di fermenti politici negli anni del cosiddetto biennio rosso, perché li i giovani Antonio Gramsci e Piero Gobetti consumavano cibo da Piola: di sicuro tomini al verde, pane e acciughe accompagnavano le impegnate discussioni politiche dei due rivoluzionari, che osavano miscelare Comunismo e Liberalismo.

A volte andavo con mia madre a fare compere a Porta Palazzo, come chiamano affettuosamente i Torinesi Piazza della Repubblica, e li attorno tutto parlava dei Santi Sociali,creatori  delle prime strutture assistenzialistiche dell’ Ottocento; Don Bosco sembra privilegiasse i pasti semplici consumati al Cottolengo.

Ho volutamente associato i miei ricordi dei primi tempi in città a luoghi che parlano di cibo, perché forte è il legame di Torino con la buona cucina. Che si tratti di semplici ristoranti di quartiere come Mamma Licia di Via Mazzini, tanto amata da generazioni di studenti, sia che si parli dei locali come il Cambio, la Smarrita ed altri, frequentati a suo tempo assiduamente anche dall’avvocato Gianni Agnelli, che da autentico gourmet, amava la cucina di grande qualità, la città ha molto da offrire.

Dunque il cibo ha collegato come un trasparente fil rouge le grandi culture politiche e industriali che hanno reso moderna Torino e ha segnato la storia di una Città che si preparava a divenire Capitale e lo fu non solo del Regno d’Italia, ma anche  dell’Industria e del Cinema, in Italia nato proprio qui e celebrato con un bel museo, poi con la grande immigrazione dal Sud, Capitale dell’integrazione nazionale. Attraverso i due decenni degli anni ’70-’80, spettatori del lento declino causato dalla crisi Fiat, si arrivò all’inizio degli anni ’90, periodo in cui Torino giovò di una nuova visione di sviluppo,in cui il tessuto urbano iniziò ad essere fortemente modificato eriprese la sua rinascita economica.Venne messa a punto una strategia complessa, attuata per rispondere alla crisi  industriale e volta al rilancio della città attraverso idee forti, di cui le Olimpiadi Invernali del 2006 rappresentarono l’espressione più eclatante.

Da quegli anni la Città lentamente rinasce e si riappropria del suo ruolo di Capitale culturale, della ricerca scientifica e aerospaziale, del cibo,  con l’eccellente tradizione gastronomica e vinicola: Slow Food, il Salone del Gusto e per finire, con il Turismo sia culturale che enogastronomico, che ha portato Torino e il Piemonte ad essere definiti dalla stampa specializzata mondiale, la meta da visitare per il 2019.

Ogni fase di questa storia ha avuto importanti retroterra sociali e sommovimenti nell’organizzazione delle culture del cibo che occorre indagare, per evidenziare come essi siano stati uno dei motori della riqualificazione di molte aree degradate della Città.

Sino agli anni ’90, i quartieri di Torino erano sostanzialmente distinti in tre gruppi: i quartieri operai come Falchera, Barriera di Milano, Aurora, Vanchiglia, nati in periodi di archeologia industriale di fine Ottocento, le periferie nascenti delle Vallette, di Mirafiori Sud, i quartieri degradati del Centro Storico come San Salvario, Porta Palazzo; poi c’erano i quartieri borghesi della Crocetta, Cit Turin, Santa Rita, ed infine le zone del Centro e della Collina, appannaggio delle classi abbienti e dell’ Alta Società Sabauda.

Durante la “rivoluzione” cittadina appena descritta, la trasformazione di alcuni quartieri ha rappresentato il suo aspetto più importante. Si sono demolite vecchie aree industriali in disuso (Venchi, Fiat, Teksid etc.) per far posto ad interi quartieri residenziali, centri commerciali e culturali. Si sono razionalizzate grandi arterie di scorrimento, riqualificate Stazioni ferroviarie (la Spina Centrale, l’asse di Corso Marche, l’asse del Po) e create nuove forme di trasporto (metropolitana). Così si è modificata la Città degli anni 2000, che ha disvelato tutte le sue potenti personalità. Non si è trattato però solo di una rivoluzione urbanistica, grande è stato il cambiamento culturale e sociale, che ha richiesto molto sforzo a Torino,che ha abbandonato quel suo naturale rigore sabaudo, quella sua istintiva ritrosia di dama di altri tempi e si è aperta al Mondo, alle altre realtà, così distanti dalla sua. E ci è riuscita, egregiamente, con metodo e rigore, vedendo interi quartieri rinascere col profumo delle spezie dei ristoranti etnici e i mille locali alternativi, pullulanti di giovani.

Esemplificativa è stata la trasformazione di tre quartieri centrali, un tempo degradati ed ora centro della movida cittadina, che grazie al cibo abbiano decretato il proprio successo e messo il sigillo ad un cambiamento ormai destinato a durare nel tempo: Quadrilatero Romano, San Salvario, Vanchiglia.

L’elenco non è casuale, ma tiene conto della consequenzialità temporale dello sviluppo, iniziato nei primissimi anni Duemila ed ancora in divenire.

Il Quadrilatero comprende la zona di Torino in cui si insediò il primo nucleo romano e che da sempre era sede di tutti i Tribunali della Città; con la costruzione della Cittadella Giudiziaria di Corso Vittorio Emanuele, la zona è rimasta orfana di tutta un’economia secolare, indotto dei Tribunali. Si è allora pensato di creare al suo interno delle zone pedonali e di concedere licenze per l’apertura di attività ristorative. L’idea è stata subito apprezzata dai Torinesi, che l’hanno premiata con la loro frequentazione.

San Salvario ha una storia riqualificativa più recente, si trova tra la Stazione di Porta Nuova e il Parco del Valentino ed ha due anime differenti: quella popolare dei palazzi a ridosso della Stazione e quella borghese delle vie verso il Fiume. Tantissimi locali etnici, i cui profumi speziati avvolgono le case e i pedoni, birrerie, locali alternativi. I giovani vi hanno subito fissato il proprio quartier generale e, grazie alla metro e alla ferrovia, lo frequentano in tutte le ore del giorno e della notte. La rinascita ha visto rimodernare le case fatiscenti che dagli anni del Dopoguerra avevano ospitato migliaia di immigrati del Sud Italia. La sua vocazione all’accoglienza non si è persa neppure ora e tra le sue strade diritte si incontrano persone provenienti da ogni parte del Mondo.

Vanchiglia è l’ultima arrivata, se così si può dire, tra le “riconvertite”. Si estende tra il Centro Storico attorno alla Mole sino alla Dora, al Po e ai parchi che li costeggiano. Nasce come quartiere operaio di metà-fine Ottocento, per ospitare i lavoratori delle molte fabbriche sorte nella zona. Abbandonata per decenni, sino al 2010 circa, periodo in cui viene inaugurato il nuovo polo universitario del Campus Einaudi, che segnerà la rinascita del quartiere. Ora migliaia di giovani studenti lo popolano; locali, ristoranti e birrerie lo riempiono di musica e odori, per buona pace dei vecchi abitanti.

Insomma, in queste tre storie di cambiamenti metropolitani c’è il comune denominatore del il cibo. Esso con la convivialità che è capace di creare, la cultura che inevitabilmente si porta dietro e la capacità di contaminazione e cambiamento che genera, ha permesso una “saporita” rivoluzione, silenziosa, graduale e  pacifica, che farà sentire i propri effetti positivi sulla Città per molto tempo ancora.

Mara Antonaccio, novembre 2018 – © Mozzafiato

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