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LA FINE DELL’ENTERPRISE

Quella di Kirk? No, quella di Shumpeter!

Neppure essere imprenditori (capaci, s’intende), in questo mondo sottosopra, è più garanzia di agiatezza (e neanche di benessere); prima della decadenza ne era invece una condizione non necessaria, ma ampiamente sufficiente. Tanto che si sente ormai più d’un imprenditore (o professionista) dire di desiderare d’essere uno dei suoi dipendenti; spesso non solo ironicamente.
Chiunque avesse lo spirito e l’intuizione, nonché un certa disponibilità finanziaria iniziale, fino a non molto tempo fa voleva intraprendere, allettato dalla prospettiva di un tenore di vita e di uno status nettamente migliori rispetto a un non imprenditore. Ma era un mondo senza (o con poche) vessazioni, nel quale l’unico rischio era quello di prodotto (cioè di successo della propria business idea, in fondo), che se ben affrontato era anche ben ripagato.
Ora i “lacci e lacciuoli”, che già decenni fa molti economisti (e industriali) predicavano di dover eliminare, si sono invece stretti; son diventati anzi catene e camicie di forza. L’imprenditore è sicuramente creatore, e spesso anche un po’ sognatore; la sua energia produttiva e innovativa non può esplicarsi se soffocato da briglie burocratiche,fiscali,culturali,politiche,istituzionali.
Inoltre l’intrapresa, in senso economico-filosofico, non può che essere individuale, o comunque piccola, nella quale le abilità e le intuizioni dell’imprenditore/fondatore trovano pieno dispiegamento e riconoscimento.
Quante nostre piccole imprese tradizionali sono nate ed hanno prosperato così. E poi si sono pure ingrandite. Era la via alternativa ed  operosa alla ricchezza per chi non ne avesse ereditata una.
Nell’attuale contesto economico globalizzato l’impresa di successo sembra che debba essere necessariamente di grandi dimensioni, o quantomeno offrire un prodotto omologato e standardizzato, l’antitesi dell’originalità e della creatività degli imprenditori individuali.
Si obietterà che alcuni degli attuali colossi mondiali dell’informatica sono nati dall’idea di pochi nerds riuniti in qualche garage. Sì, qualche volta è andata così, benché forse in modo più casuale che pianificato. Peraltro solo in quel settore, ed è stata più l’eccezione che non la regola, a differenza dei nostri piccoli industriali del secolo scorso. Ma soprattutto quelle sono le imprese che hanno fatto la globalizzazione quando non c’era; ora che è realtà sembra difficile poter ripercorrerne le orme a partire da minuscole operosità locali. La grande dimensione obbligata è una delle più forti barriere all’entrata di nuovi competitors, in ogni settore.
I capitani di industria (come quelli di navi, terrestri o astrali che siano) sono in fondo degli avventurieri, degli esploratori; cioè degli alfieri delle più umane delle pulsioni. Auguriamo che si ripristini un ambiente propizio per il loro operare, per le loro piccole grandi intraprese. Un mondo che tarpa le ali alle loro ambizioni non può avere un gran bel futuro.

Il Conte, aprile 2017 – © Mozzafiato

Ufficio Stampa