Chissà se Michelangelo Antonioni aveva previsto le mascherine di questi giorni facendo cingere il volto di Monica Vitti con una sciarpa, in una Ravenna cromaticamente smorzata, nel suo capolavoro Deserto Rosso (1964).
In questi giorni di pandemia dovuta all’emergenza Coronavirus, l’incomunicabilità, tanto denunciata dal regista ferrarese, riemerge con plastica ferocia, ed informa di sé quello stesso pallore urbano odierno. E si riaffaccia prepotentemente il medesimo deserto di uomini estraniati fra di loro, nei confronti delle cose da loro create e, soprattutto, con la natura.
Nella Quaresima che si è mutata in quarantena, il tenebroso rito officiato venerdì scorso da Papa Francesco in solitaria ha acutizzato in tutti quella lettura metafisica delle città vuote già negli animi da giorni. I dissidi che abbiamo colpevolmente coltivato negli anni ci hanno fatto incorrere in questa secca della storia.
Siamo vittime di una nevrosi collettiva che è innanzitutto – anche temporalmente – perdita di misura. Lo sprezzo delle più elementari norma di igiene ha portato alla creazione nonchè alla diffusione del virus. E i mercati “umidi” cinesi in cui si macellano animali vivi, che ne hanno favorito il salto di specie all’uomo, sono solo la metafora (o una mostruosa sineddoche) del grande mercato globale in cui l’economia predatoria ha infettato i diritti umani, che ormai, dopo decenni di consunzione, sono divenuti inutili carcasse immolate ad un supposto progresso.
Da un mese circa, la coazione all’immobilità imposta dalle autorità politiche ha reso le nostre città culle di silenzio. E c’è da sperare che la quiete attuale non diventi clangore e sommossa (vedi i tentati furti con assalti ai supermercati).
Questo silenzio potrebbe però al contrario farci riflettere su come ridurre lo sfasamento fra l’uomo e l’ambiente e far nascere in noi, dall’iniziale incomunicabilità, una consapevole “abilità”: quella all’ascolto reciproco, poi dei nostri territori urbani, ed infine alla cura dell’ecosistema tutto, il più possibile al di là delle stantìe sovrastrutture economico-sociali.
Non (solo) un vaccino ci può salvare, tanto meno dalla vastità dei fenomeni negativi che abbiamo innescato, bensì il ritorno ad una semplicità prestrutturale complessiva. Solo così quel “dopo” emergenza, ad oggi criptico, impalpabile, sospeso, continuamente rimandato, potrà essere, nella corsa del sistema-mondo, un plausibile scollinamento.