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Berlinoscar

Il cinema sta bene, è vitalissimo e lotta insieme a noi. Per un mondo migliore, fatto di contenuti, etica, qualità e bellezza. E’ la prima considerazione che mi affiora in questo periodo infausto per l’attualità e per la cronaca, ma al contrario florido di proposte sul grande schermo. Sono fresca di Berlinale 2016, con ancora gli occhi accesi da tante immagini potenti, una sull’altra, e riflettevo che SPOTLIGHT e FUOCOAMMARE sono i due film simbolo di Berlino e degli Oscar appena assegnati. Cioè il frutto di un’accurata inchiesta giornalistica condotta dal team del Boston Globe per portare in superficie l’orrore dei preti pedofili americani e un documentario di Gianfranco Rosi non didascalico, non strumentale a nessuna corrente politica, che racconta la vita di Lampedusa sospesa fra le centinaia di disperati che tentano di attraccare ogni giorno nel porto con dei barconi scassati e le famiglie dei pescatori, con i loro bambini, sulle altre rive dell’isola, presi dai loro quotidiani, normali affanni.Oscar-20161

Un bellissimo segnale, al di là del valore estetico delle opere, che comunque è molto alto. La differenza fondamentale fra la kermesse tedesca e la Notte delle Stelle è appunto la durata. Un festival di 11 giorni e una serata infinita, che termina con dei riconoscimenti, principalmente autorivolti e autoriflessi, essendo per lo più destinati ai film di produzione statunitense. Ma se a Berlino per definizione e indole sanno valorizzare i bei film, portatori di valore da diffondere presso il grande pubblico, qualcosa sta cambiando nella paludata industria del cinema hollywoodiano.

Intanto, e capita di rado se non mai, quest’anno l’Academy Awards ha scisso il premio al miglior film, Spotlight, da quello alla miglior regia, andato ad Alejandro G. Inarritu per Revenant.

Spotlight-copy-copyPerché? Ce n’è più d’uno. Intanto il tema del film di Tom McCarthy, la caccia ai preti pedofili, non solo non poteva essere ignorato ma si meritava un riconoscimento forte, che è arrivato e abbiamo ancora negli occhi il salto rampante di Michael Keaton, capo del team investigativo nel film, sul palcoscenico del Dolby Theater il 28 febbraio, sotto gli occhi del vero reporter al comando dell’indagine, Michael Rezendes, interpretato da Mark Ruffalo. Un lavoro serio, documentato e rigoroso che ha portato a quei giornalisti il premio Pulitzer nel 2003.

Premiare la sceneggiatura originale di questo film, scritta a quattro mani, è parso un passaggio obbligato, anche se cronologicamente questa statuetta è stata consegnata prima. Appropriato l’Oscar a Inarritu, che potrebbe a questo punto scattare in un balzo tipo il Grizzly del suo film e urlare: “Sono il Re di Hollywood!”, come fece nel ’98 James Cameron dopo l’incetta di Oscar per Titanic. Ma questo è messicano ed è conscio che è meglio soprassedere. E’ il suo secondo Oscar consecutivo alla regia, sembra che l’Academy abbia scoperto da poco il suo talento, eppure è l’autore di Amores Perros e 21 Grammi (non proprio film ‘da Oscar’, a dire il vero, o comunque realizzati in tempi non maturi e meno aperti).

 

E’ questa una delle parole chiavi: l’apertura mentale sfoggiata dai giurati. Che si vede nei premi agli attori. Intanto, c’è una svedese. Alicia Vikander, fantastica in The Danish Girl. Tanto da essere preferita dai critici a quel mostro di bravura di Eddie Redmayne. Poi abbiamo Mark Rylance, superbo interprete di Il Ponte delle Spie di Steven Spielberg. Attore inglese di razza, formatosi a teatro, in patria.

Leo DiCaprio? Si è detto tutto e se lo meritava perché ha dato l’anima per questo ruolo, così come in un altro modo ha fatto Brie Larson, in Room, che esce oggi in Italia.jacobtremblayfyc_uszn

Fra i ricordi molto personali, metto l’abbraccio, le lacrime e le occhiate di Kate Winslet a Leonardo, da Rose a Jack Dawson, i nomi dei loro personaggi in Titanic. Ho amato moltissimo quel film, una delle scene più romantiche di tutti i tempi per me rimane, oltre a quella celeberrima sulla prua, l’affondamento e la ricostruzione perfetta dell’ipotermia sui corpi di attori e comparse.

Fra gli altri ricordi di una serata abbastanza riuscita dal punto di vista dell’entertainment metto l’uscita in esterni, a Covington, città natale del conduttore Chris Rock, che vi ha realizzato delle interviste in mezzo alla gente del posto, traendo delle risposte molto poco “da Oscar”. Il giornalismo è questo, ha molto a che vedere con l’imprevisto.

A Berlino il bello di un Festival – così come lo è di Cannes, dal quale proviene Mad Max: Fury Road, strabiliante fantasy cyber-apocalittico rimbalzato e premiato agli Oscar – è proprio la arguta mescolanza di drammoni con le commedie e i titoli di genere: pensiamo al francese News from Planet Mars, racconto comico in cui un povero cristo si divide fra le aspirazioni personali e il desiderio di piacere e fare del bene a tutti, con conseguenze infauste per lui, esilaranti per noi. Per non parlare di Sion Sono, il terribile giapponese di cui Berlino ha ospitato una mini rassegna, mettendone in luce il talento straordinario.

I grandi festival posseggono questa visione trasversale, polimorfica.

Io ho da fare solo un appunto alla Berlinale. Invece di chiamare Alba Rohrwacher in giuria, contro la quale non ho nulla, perché non hanno chiamato Luca Marinelli? Fra gli attori del momento, italiano che vive a Berlino e già shooting star del festival qualche anno fa. Lui il tedesco un po’ lo parla…

 

Lara Maria Ferrari, marzo 2016 – Mozzafiato (Riproduzione riservata)

 

Ufficio Stampa